Cars&Boobs

Brandon&Clémentine

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    Quando quell'Alfa Romeo centoquarantasette era arrivata in officina, una settimana prima, Brandon non vedeva l'ora di metterci mano. La carrozzeria grigia, tirata a lucido nonostante avesse qualche piccolo guasto tecnico, lo aveva completamente mandato in pappa e per giorni interi non aveva fatto altro che parlare di quell'auto. Era un caso raro, infatti, che Brandon potesse aggiustare automobili tanto belle quanto di lusso e di solito in officina passavano solo Smart o qualche catorcio di seconda mano ormai arrivato al termine. Ma quell'Alfa Romeo, meravigliosa da far paura, era l'eccezione che confermava la regola e il ragazzo si sentì felice quanto un bambinetto a Natale. Lui e il suo socio più anziano avevano passato l'intera mattinata a tentare di capire che razza di guasto avesse, smontandola e rimontandola più e più volte, cambiando il freno a mano e anche l'olio.
    Il suo era un lavoro duro, faticoso e spesso... Sporco. Eppure Brandon, quando usciva dall'officina con le mani unte e il nero un po' ovunque, si sentiva soddisfatto: aveva appena concluso qualcosa che lo appagava e non gliene importava un fico secco se per caso riceveva occhiatacce dalle altre persone perché si sentiva bene con se stesso. I motori erano il suo amore più grande, peccato che il tempo che poteva dedicargli sembrava diminuire sempre di più...
    Ed era tutta colpa di sua madre.
    Per l'ora di pranzo finalmente poté prendersi una pausa e lasciar perdere, per una mezz'oretta, l'Alfa Romeo e quel suo problema che sembrava non avere soluzioni. Brandon camminava con lo sguardo incollato alle punte delle sue scarpe da ginnastica. Era distratto da qualcosa che lo stava logorando da dentro, un fastidioso formicolio alla bocca dello stomaco di cui voleva liberarsi al più presto.
    Ma come poteva fare quando la causa di tutto ciò erano proprio i suoi genitori?
    Certo, Brandon avrebbe potuto cambiare casa ormai già da tempo, affittare un piccolo appartamento in centro città o addirittura spingersi oltre e trovare alloggio in periferia, lontano dalla sua altezzosa madre e da suo padre che non faceva altro che assecondarla. Ma non aveva tempo, voglia e soldi. In tutta sincerità Brandon era quel tipo di ragazzo che non sarebbe stato in grado di cucinarsi da solo un uovo al tegamino, figuriamoci di stirarsi una camicia o tenere in ordine la propria camera. No, trasferirsi era fuori discussione, ma cos'altro avrebbe potuto salvarlo?
    Sbuffò e si cacciò le mani in tasca alla ricerca delle sue adorate sigarette ma, quando si accorse che quello era il giacchetto sbagliato e che il pacchetto si trovava in quello di pelle che giaceva sul suo letto, imprecò ad alta voce e lasciò che una vecchietta gli scoccasse un'occhiataccia. Il ragazzo storse in naso, si strinse nelle spalle e abbozzò un sorriso, pregando che quella donna dalla pelle raggrinzita non fosse una delle pazienti di sua madre, altrimenti una volta tornato nel suo studio gli sarebbe toccata l'ennesima strigliata.
    Brandon era stufo di ricevere ordini, di studiare cose che non gli interessavano e di poter dedicare poco tempo a ciò che invece amava davvero. Certo, le donne attorno non gli mancavano mai, ma niente avrebbe potuto competere con il meraviglioso rumore della marmitta di una moto appena accesa. Neanche il più bel paio di tette della più bella ragazza al mondo, ne era pienamente convinto.
    Sorpassando la vecchietta e cercando di dare nell'occhio il meno possibile, il ragazzo si infilò nel primo tabaccaio per poter finalmente acquistare le sue tanto amate sigarette. Era una bella giornata, il sole di dicembre faceva timidamente capolino dalle nuvole e, nonostante non riscaldasse poi un granché, la temperatura era più che ottima per essere il mese più freddo dell'anno. Di tornare immediatamente in officina proprio non se ne parlava, voleva utilizzare quei dieci minuti che gli restavano per fare una passeggiata e sgranchirsi un po' le gambe. Il solo pensiero che una volta fuori dall'officina gli sarebbe toccata l'ennesima lezione di anatomia diretta da sua madre gli dava il voltastomaco. Ma non poteva neanche valutare l'opzione di non andare perché poi sarebbe stato ancora peggio e la cena si sarebbe trasformata in un processo contro di lui.
    Brandon, dunque, non aveva scelta.
    Sentiva di vivere una vita che non voleva, rinchiuso in una bellissima gabbia dorata fatta di soldi, genitori apparentemente amorevoli e una bella casa, ma prigioniero di un qualcosa da cui non aveva scampo. Lui dottore? Puah, neanche morto.
    Si portò la sigaretta alle labbra e pigramente attraversò la strada. Non riusciva a capire per quale motivo la sua vita, piuttosto che prendere la giusta piaga, sembrava ogni giorno un po' di più andare a rotoli. Era... Insensato. E la situazione iniziava a farsi pesante. Certo, c'era stato un tempo in cui anche lui poteva dire di essere stato felice, lo stesso periodo in cui i suoi genitori sembravano essere orgogliosi di quel figlio prediletto, il Kent che avrebbe tenuto alto il nome di famiglia.
    Tutto infranto, e per cosa poi? Per una donna.
    Ah, Melanie, se soltanto avesse saputo resistere a quegli occhi scuri e magnetici o a quelle sue labbra sempre pitturate di rosso magari a quest'ora la sua vita sarebbe stata diversa, un crescente salire di belle esperienze piuttosto che un'ignobile esistenza dedicata alla medicina e ad aiutare il prossimo. Non che a Brandon dispiacesse essere gentile, altroché, ma c'era qualcosa di così falso e meschino nel sorriso di sua madre quando visitava i pazienti che alle volte si chiedeva quanto stupidi dovessero essere per non accorgersene e lui, poi, non voleva essere come lei. Rassegnato che il tempo della pausa fosse ormai giunto al termine, Brandon tornò sui propri passi e si diresse verso l'officina, con l'intento di mettere un bel punto a quella storia dell'Alfa Romeo.
    Poco prima che si lasciasse chiudere la porta alle spalle, ricontrollò per bene che non avesse avuto una svista. Sentì Arnold chiamarlo da dentro il locale, ma Brandon era troppo impegnato a controllare dall'altra parte della strada cercando di mettere a fuoco.
    Accidenti, era lei, non c'era ombra di dubbio. Nonostante l'avesse vista soltanto una volta, poteva riconoscere quella ragazza fra altre cento.
    E quel suo seno, poi.
    Brandon entrò al volo in officina soltanto per afferrare le sue cose e liquidarsi con una stupida scusa. «Mia... Mia madre» aggiunse poi una volta arrivato sulla soglia «Ha detto che è un'urgenza e che devo assolutamente passare nel suo ufficio. Mi dispiace Arnold, sai che abbandonerei te e questo lavoro soltanto per cose serie. I motori sono il mio amore più grande, ricordi?» l'uomo annuì e lo lasciò andare via cacciandolo con un annoiato e lento gesto della mano avvisandolo che quella sarebbe stata la prima ed ultima volta.
    Brandon sorrise e lo ringraziò. Arnold avrebbe capito. Forse.
    E magari era vero, le moto e i motori erano la sua più grande passione e niente l'avrebbero mai distratto da ciò, neanche un seno bello e prosperoso. Ma accidenti, quelle erano delle super tette.
    ▲ Brandon L. Kent ▼
    Aveva imparato a rispettare il baratro che lui aveva scavato tutto intorno a sé... Anni prima aveva provato a saltarlo quel baratro e ci era cascato dentro, ora si accontentava di sedersi sul ciglio con le gambe a penzoloni nel vuoto!

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    Edited by *Clementine - 21/12/2014, 16:01
     
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    Quella mattina si era svegliata di cattivo umore e nemmeno lei sapeva perché. Forse era scesa dalla parte sbagliata del letto o forse, molto più probabile, il fatto che i suoi insistessero per fargli conoscere continuamente nuovi ragazzi la metteva inevitabilmente in agitazione.
    Non ne faceva loro una colpa, era ovvio che un padre ed una madre fossero desiderosi di vedere la propria figlia accompagnata ad un baldo giovane dolce ed aitante, ma nonostante tutto non poteva fare a meno di pensare che erano crudeli nel dare per scontato che per lei non ci fossero difficoltà di alcun genere nel doversi incontrare con un qualsiasi buon partito le trovassero.
    Insomma, non era stato proprio un uomo – un parente addirittura – a farle del male?
    Non era a causa di un uomo che avuto un trauma così grande, da portarla a perdere la vista?
    «Stamane cosa fai di bello?»
    La voce di sua madre la colse alla sprovvista mentre, con mani incerte, cercava di afferrare la tazza che aveva appena riempito di té caldo. Si girò automaticamente verso di lei, pur non sapendo con esattezza dove si trovasse. Quando fu più o meno di sicura di star puntando lo sguardo verso Maya, abbozzò un debole, quanto insignificante sorriso.
    «Pensavo di dedicarmi un pò alla scultura. Sai com'è, quando la creatività arriva è sempre meglio approfittarne.»
    Per ovvi motivi non poteva sapere quale espressione la donna avesse ma, a giudicare dal modo in cui cinguettava quando parlava, Clém non dubitò neanche per un secondo che fosse in arrivo l'ennesimo blando tentativo di convincerla a darle almeno un minimo di corda.
    Tornata a dedicare la propria attenzione alla tazza fumante che stringeva fra le mani, Clémentine si mise seduta al bancone della cucina, le gambe a penzoloni dallo sgabello in legno che sua madre aveva così accuratamente scelto quando ancora era una bambina. Ricordava che il giorno in cui li avevano portati in casa, avevano mangiato tutti e tre pranzo e cena su quei tre deliziosi sgabelli per almeno due settimane intere. Senza alcuna eccezione. E avevano riso come degli sciocchi, nel rendersi conto di quanto assurda fosse quella situazione.
    Erano quelle le cose che più le mancava vedere.
    I sorrisi dei suoi le erano rimasti impressi nel cuore, ma purtroppo i ricordi non rimangono indelebili ed intaccati per sempre: le immagini erano solite sbiadire quando uno meno se lo aspettava, lasciandoti addosso l'ansia di aver rimosso un particolare importante e la consapevolezza di non poterlo mai più recuperare.
    «Io e papà pensavano di organizzare una cenetta con gli Stevenson, stasera.» le disse Maya, posando i gomiti sul bancone poco distante da lei. Sentiva i suoi occhi addosso, però non si scompose e imperterrita continuò a versare zucchero nella tazza. Due cucchiaini, massimo tre. Non di più. «Verrà anche loro figli se... Se a te fa piacere.»
    A questo punto lo sguardo di Clémentine si fece a dir poco distaccato. Aveva sopportato così tante volte quel genere di chiacchiere che ormai a stento ci faceva caso, si lasciava scivolare tutto addosso come se nemmeno fosse stata presente mentre sua madre la costringeva ad essere unica spettatrice della sua idizia.
    Ma era davvero così difficile comprendere che dopo ciò che aveva passato, la sola idea di avere a che fare intimamente con un uomo la disgustava?
    «Mi stai per caso chiedendo il permesso di far venire qui a cena un ragazzo che, comunque, neanche conosco?» le domandò di getto, dopo aver mescolato con accuratezza il té. Mise da parte il cucchiaino. «Non sono ancora diventata tanto meschina da impedire a te e a papà di fare quel che volete.»
    «Lo devo prendere come un sì?»
    «No, mamma. Lo devi prendere come un "non mi importa ciò che fate, io comunque non voglio averci niente a che fare".»
    Maya alzò gli occhi al cielo, felice che almeno questo la figlia non lo potesse vedere. Comprendeva il suo essere schiva perché per ovvi motivi non poteva essere altrimenti, ma non capiva come fosse possibile che dopo tutto quel tempo ancora si ostinasse a non voler sperimentare nulla che avesse a che fare con l'amore.
    «Clémentine...» le fece una carezza, baciandole una tempia con estrema dolcezza. Prese un respiro profondo prima di parlare. «So che ti stiamo stressando. Lo so. Però è necessario che tu capisca che quello che...ti ha fatto Jean non è in alcun modo sintomo di vero amore. Non importa cosa lui ti abbia detto. Non importa cosa ti abbia fatto credere.»
    Di nuovo lo stesso discorso.
    Era quello da anni ormai, e Clém poteva giurare su qualsiasi cosa di aver memorizzato quelle parole nel profondo. Le aveva marchiate a fuoco nella mente e, anche se sapeva che erano parole veritiere, non poteva fare a meno di pensare che fosse sciocco dagli altri pretendere che bastassero discorsi di circostanza a sistemare le profonde ferite che si portava dentro.
    Suo zio Jean l'aveva violentata per un anno intero, prima che qualcuno si accorgesse di come stava veramente. Era dovuta diventare cieca per attirare su di se abbastanza attenzione e smascherare, così, quell'uomo orribile. Ogni tanto si domandava cosa sarebbe successo se, invece di peggiorare così visibilmente, se ne fosse solamente rimasta zitta. Qualcuno le avrebbe offerto aiuto?
    «...vogliamo solo trovarti una persona da amare.»
    «Non ho bisogno di amare nessuno, mamma. Sto bene anche da sola.» rispose bruscamente la brunetta, scostandosi dalla madre per sgusciare via dalla sua presa. «Ho te, ho papà, ho Chopin... Non mi importa se gli altri provano pena per me, non sento il bisogno di niente di più di ciò che ho adesso.»
    E, detto questo, si alzò in piedi dirigendosi verso la depandance dove ormai da tempo viveva.

    ***

    Per fortuna nel pomeriggio il suo umore era un tantino migliorato.
    Preso il guinzaglio del suo amato labrador, Clémentine si concesse una passeggiata che se non altro ebbe la forza di scioglierle i nervi. Già a pochi passi di distanza da casa, si sentì immancabilmente più leggera mentre tutto, di nuovo, le sembrava finalmente lontano.
    «Chi ha bisogno di un uomo, quando ci sei tu con me?»
    Sorrise, fermandosi un secondo sul marciapiede e chinandosi per accarezzare il caro, dolcissimo Chopin. Bastava lui a proteggerla, non serviva nessun altro, men che meno un ragazzo borioso e pieno di sé che in una donna cercava solo... Delle belle forme.
    ▲ Clémentine E. Boudelaire ▼
    Ascoltando una musica calma e malinconica, quando, nell'isolamento di una malattia, il nostro passato si riduce a pura materia di contemplazione, siamo come trasportati in un senso dell'esistenza alto e rarefatto. E in esso è qualcosa di una giustizia austera e tuttavia compassionevole, che toglie ogni cruccio al ricordo delle nostre sconfitte, e amorosamente ci distacca dai nostri stessi desideri.

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    Edited by peppercrow. - 8/12/2014, 16:34
     
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    Le sue esperienze passate gli avevano insegnato che accontentare le donne non era poi così complicato. Quelle creature – tanto belle quanto letali – reclamavano amore ad ogni costo così Brandon non doveva fare altro se non fingersi completamente assuefatto dai loro corpi. Questo, per lui, non era affatto complicato poiché il “piacere sessuale” era un pensiero che gli martellava continuamente il cervello. Il problema era fingersi innamorato di loro, di quei caratteracci o i loro sballati modi di fare.
    Gli erano capitate sotto mano donne ricche che si lamentavano continuamente della vita insoddisfacente che facevano o donne indipendenti che ribadivano il concetto che preferivano star da sole piuttosto che incatenarsi ad una figura maschile. Donne, donne e solo donne. Dopo Melanie, infatti, Brandon aveva accettato il fatto di non saper amare più, cancellando per sempre quella mistica emozione dalla sua mente e il suo corpo. Per lui esistevano soltanto i suoi amici – Misha in primis – le moto, le corse clandestine e il suo lavoro da meccanico che gli ricordava quanto bella, ogni tanto, fosse anche la sua vita.
    Quando si domandò per quale assurdo motivo stesse letteralmente stalkerando quella ragazza, esitò. Beh, non la stava davvero perseguitando come un maniaco perché non la seguiva e non si appostava sotto casa sua – non sapeva neanche il suo indirizzo! – e poi le sue intenzioni erano delle più pure: l'avrebbe fatta ridere con le sue battute per poi chiederle di uscire, dopo di che l'avrebbe portata a letto e il giorno seguente tanti saluti.
    Ecco, Brandon non era un maniaco, quella ragazza non sarebbe diventata il centro dei suoi pensieri anche se, in tutta sincerità, aveva passato parecchio tempo a pensare a lei da quando l'aveva notata nello studio medico di sua madre.
    Era carina, questo doveva ammetterlo, e il suo sguardo era unico reso ancor più magnifico da quel glaciale colore degli occhi. Peccato che lei non potesse vederlo perché anche Brandon aveva la consapevolezza di essere un bel giovincello... Che spreco.
    Davanti a lui c'era dunque una nuova missione: farsi una donna cieca. Questa voce mancava decisamente alla sua lista e gli avrebbe senz'altro fatto guadagnare una marea di punti – e di consensi – tra i suoi amici. Sarebbe stato un eroe acclamato per sempre e ricordato per le sue incredibili gesta!
    Eppure, il pensiero che fosse sbagliato approfittarsi di una ragazza del genere, gli balenò nella mente. Era davvero giusto considerare quella tipa come un trofeo da mostrare alla sua combriccola? Decisamente no e non gliene era mai importato... Perché tutti quei pensieri si scaturivano proprio adesso, quando era ad un passo da lei, pronto per tirare la sua rete verso la preda?
    Esitante e con la mano leggermente tremolante, picchiettò sulla spalla della ragazza china sul proprio cane, ancora una volta intenta a parlare con il suo amico a quattro zampe. Sicuro che anche voltandosi lei non l'avrebbe riconosciuto – Brandon e le pessime battute, anche se consapevole che fossero del tutto sbagliate, continuavano ad andare a braccetto – si schiarì la voce e si annunciò: «Smetterai mai di parlare con i cani?».
    Non era esattamente il tipo di frase con cui avrebbe normalmente iniziato un approccio con una donna qualsiasi, ma quella era leggermente diversa da qualsiasi altro essere femminile con cui Brandon aveva avuto a che fare: aveva un seno prosperoso, non vedeva e, come ciliegina sulla torta, era anche una paziente di sua madre. Sapeva perfettamente che, se soltanto fosse partito con il piede sbagliato – di nuovo – quella avrebbe senz'altro spifferato tutto alla dottoressa regalando a Bran soltanto l'ennesima ramanzina che lui proprio non aveva voglia di ascoltare.
    Lanciò un occhiata al cane, un simpatico Labrador dall'aria gioiosa che però non sembrava altrettanto felice di rivederlo, e tornò con l'attenzione sulla padrona.
    «Magari potresti iniziare a parlare con me... Non è una cattiva idea, non ti pare?» sperava che la tizia la prendesse sul ridere ricredendosi sul suo conto: era consapevole di aver fatto una pessima figura, quella volta nello studio, esternando quando bello fosse il suo seno e poi cercando di rimediare all'errore riportandole il foulard. Ah, se solo lei le avesse dato il tempo di scusarsi e di presentarsi... A quest'ora Brandon sarebbe già alla seconda fase dei suoi cinque passi per conquistare una donna:
    1) farsi notare
    2) presentarsi
    3) chiederle di uscire
    4) portarla a letto
    5) sparire senza lasciar traccia
    Si gettò sulla spalla sinistra la sua giacca di pelle e tentò di ammiccare un sorriso verso la gente che passava, giusto per assicurarsi di non destare sospetti e di non essere scambiato per un maniaco. Sì, la sua intenzione principale era quella di farsela senza pietà, ma prima di arrivare a quel punto era buon'educazione fingersi amichevole e interessato ai suoi discorsi che sarebbero stati senz'altro stupidi. Brandon aveva ascoltato storie di donne a cui, apparentemente, non mancava nulla piangersi addosso, perché lei non avrebbe dovuto fare altrettanto?
    Sua madre non le aveva detto niente a riguardo, non si era lasciata sfuggire nemmeno il nome. Diceva che era un “segreto professionale” e che i dettagli era bene tenerli per sé. Brandon ci aveva provato, voleva sapere per studiare al meglio il suo piano. Voleva capire come muoversi in territori tanto sconosciuti quanto infimi, ma tutto quel che aveva ottenuto era stata una scrollata di spalle e un: «Tornatene a studiare» tutto qui.
    Attendendo trepidamente la risposta, Brandon stava già calcolando in che altri modi procedere: poteva provare con l'approccio simpatico o quella drammatico, poteva azzardare la compassione e la pena addirittura...
    Ma quella ragazza non le dava l'impressione di essere la classica a cui piaceva essere compatita, pensò che addirittura avrebbe preferito mandarlo al diavolo piuttosto che sentire che gli dispiacesse per la sua situazione.
    No. Brandon doveva provare con qualcos'altro e forse, temette, quell'approccio sarebbe durato più del dovuto.
    Davvero aveva staccato prima dal lavoro – lasciato quella magnifica Alfa Romeo – soltanto per seguirla e provare... Cosa? A portarla a letto?
    Tu, si disse mentalmente, sei proprio un disperato.
    ▲ Brandon L. Kent ▼
    Aveva imparato a rispettare il baratro che lui aveva scavato tutto intorno a sé... Anni prima aveva provato a saltarlo quel baratro e ci era cascato dentro, ora si accontentava di sedersi sul ciglio con le gambe a penzoloni nel vuoto!

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    Probabilmente una delle cose buone nell'essere cieca, era il non doversi più preoccupare del significato che si celava dietro alle occhiate dell gente. Dubitava che a Renewal Hollow ci fossero persone che non sapessero del suo passato turbolento e, di conseguenza, un pò era felice di aver perso la vista: per lo meno così non si doveva soffermare nella ricerca di parole adatte che avrebbero tradotto in modo sensato gli sguardi di chi le stava attorno; certo, la pietà era intuibile anche dal tono di voce, ma tutto sommato poteva dire che forse era quasi più facile escludere le voci delle persone, anziché cercare di estraniarsi abbastanza dal mondo da non dover più dare peso a ciò che gli occhi di qualcuno cercavano di dirle.
    Sì, suo zio l'aveva violentata per anni.
    Sì, era finito in prigione.
    Sì, non ci vedeva più a causa del trauma subito.
    Una volta che aveva risposto a queste tre domande, Clémentine se ne lavava le mani di tutto quanto il resto, rifugiandosi in quel suo piccolo universo fatto di note musicali, arte e dell'affetto che i familiari rimasti le concedevano ogni giorno.
    Non si sentiva in dovere di ricercare per se stessa qualcosa di migliore, non pensava nemmeno di aver effettivamente bisogno di qualcosa da reputare migliore rispetto a tutto ciò che le era rimasto. Se i suoi genitori provavano pena per la sequela di problemi che aveva avuto nel corso degli anni, lei si sentiva fortunata nell'aver conservato almeno un briciolo della giovialità con cui era nata se non soprattutto della capacità di raziocinio con cui riusciva a ragionare, analizzando le cose alla ricerca di una motivazione sensata per cui decidere che una persona od una situazione le piacevano o meno.
    Diceva di no alla probabilità di trovare un fidanzato non tanto perché oramai disprezzava tutto il genere maschile – non era così sciocca da far pesare la colpa di uno su tutti – ma solo perché non si sentiva ancora pronta, non voleva donare il proprio amore a qualcuno quando dentro si sentiva così inadeguata alla sfera sentimentale da essere quasi del tutto certa di poter solamente spezzare il cuore al povero sfortunato di turno.
    Aveva cercato di dirlo ai suoi, si era premurata di essere sempre sincera al cento per cento con loro, ma i due coniugi Boudelaire in lei non vedevano null'altro se non una ragazza bisognosa di protezione, in totale balia degli eventi, incapace di badare a se stessa sebbene nel complesso avesse già dimostrato ampiamente di esserlo in ben più di un'occasione.
    La verità, forse, era che per ora doveva rassegnarsi a venire trattata ancora come una bambina nonostante avesse smesso di esserlo ormai da tempo.
    «Smetterai mai di parlare con i cani?»
    Quella voce le suonò familiare. Ci mise un pochettino a ricollegarla ad una persona nello specifico, vuoi perché in fondo l'aveva sentita una sola volta, vuoi perché a pelle non si era data pena di pensare eccessivamente a quell'incontro avvenuto non più di qualche settimana prima.
    Si mise in piedi, il guinzaglio di Chopin ancora stretto saldamente nella mano sinistra mentre, con la destra, frugava nella tasca alla ricerca del bastone che usava per camminare.
    «Magari potresti iniziare a parlare con me... Non è una cattiva idea, non ti pare?»
    Clém abbozzò dapprima un sorriso e poi, immancabilmente, cominciò a ridere di gusto.
    Ci mise non poco per riprendersi, alla ricerca di un qualsiasi ricordo pressoché serio per smetterla di ridere a crepapelle come se non ci fosse un domani. Non le andava proprio di fare la figura della stupida anche se, quell'approccio quanto mai puerile, le stava dando una mano nel rendere impossibile smettere di emettere quella dolce – quanto canzonatoria – risatina.
    «Se questo è il tuo tentativo di attaccare bottone con me, ti prego ripensa alle tue strategie perché davvero, lo trovo stupidissimo.» asserì, stringendosi nelle spalle. Fece del suo meglio per dimenticare come si erano conosciuti, cancellando dalla propria mente il commento per lei offensivo circa... Le proprie doti. «Non so davvero cosa ti faccia pensare che io possa voler spendere del tempo a chiacchiera proprio con te, ma sappi che oggi non è proprio giornata. Ho altro a cui pensare e detto sinceramente non ho tempo da perdere con uno che probabilmente è attratto solamente dal mio seno...»
    Lo aveva già inquadrato per bene, lei, inutile negarlo, e qualsiasi cosa avesse detto Clémentine avrebbe letto dentro di lui pur non possedendo occhi capaci di vedere. Era vero, quando si perdeva un senso gli altri si acuivano, ed insieme ad un olfatto e ad un udito più fini, la giovane Boudelaire si era ritrovata anche con un sesto senso e mezzo alquanto invidiabile. D'altronde, dopo ciò che le era capitato, era anche normale che il suo essere sulla difensiva si fosse tramutato in una capacità più profonda nel comprendere di chi fosse meglio fidarsi e di chi invece era meglio ignorare.
    Ahimé, quel ragazzo rientrava nella seconda categoria.
    «La cosa divertente è che non ho neanche bisogno di vederti per sapere che stai sfoderando tutto il tuo charme, solo per potermi portare a letto.» mormorò di conseguenza, sfoderando quella parte del suo carattere terribilmente cinica e spietata. «Fammi un favore, considera di andare a spassartela con un'altra perché con me non hai alcuna speranza.»
    Di certo non intendeva dire di essere troppo bella per lui o altre panzane, sperava che quello lo comprendesse. Poteva anche essere meschina alle volte, ma non era mai stata spudorata né tanto meno vanitosa. Con quell'ultima frase voleva lasciar intendere che non c'era speranza per lui di coglierla di sorpresa, spingendola a credere che dietro tutta quella finzione si celasse qualcosa di più elaborato, di più profondo. Qualcosa, insomma, che valesse la pena di conoscere e magari un giorno amare.
    Gli diede le spalle, riprendendo a camminare per strada con Chopin al proprio fianco, pronto a darle aiuto qualore fosse stato necessario. Lui era i suoi occhi, la guidava nel buio continuo della sua vita, e già sentirlo ringhiare debolmente verso il figlio dei Kent le aveva fatto capire che quello non era adatto ad una come lei.
    A quanto pare doveva cercare ancora molto, prima di trovare il proprio principe azzurro...
    ▲ Clémentine E. Boudelaire ▼
    Ascoltando una musica calma e malinconica, quando, nell'isolamento di una malattia, il nostro passato si riduce a pura materia di contemplazione, siamo come trasportati in un senso dell'esistenza alto e rarefatto. E in esso è qualcosa di una giustizia austera e tuttavia compassionevole, che toglie ogni cruccio al ricordo delle nostre sconfitte, e amorosamente ci distacca dai nostri stessi desideri.

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    Brandon poteva considerarsi abbastanza fortunato con le ragazze. Spesso e volentieri quelle cadevano i suoi piedi non appena lui si passava una mano per scompigliarsi i capelli, altre volte invece doveva impegnarsi di più, fingendosi un romantico senza speranza e trascinandole a letto con false promesse. Alla maggior parte delle donne piaceva sentirsi ripetere cose stupide, finte verità seppellite da quell'atto sessuale mentre lui diceva loro «Sei la più bella che io abbia mai visto» O ancora «Vorrei che restassi accanto a me per sempre». E poi la mattina dopo prendeva le sue cose, si vestiva rapidamente e, silenzioso e veloce come il vento, spariva senza lasciare tracce di sé. Aveva il brutto vizio di lasciare numeri finti a quelle povere anime e ogni tanto gli capitava di ascoltare storie di uomini che s'erano ritrovati i cellulari intasati di chiamate di numeri sconosciuti che chiedevano di un certo Luke, di un Andrew, di un Simon... Tutti finti nomi di Brandon.
    Non riusciva a provar pena per individui del genere, non riusciva ad immaginarle disperarsi per una storia troncata sul nascere semplicemente perché per lui, pena o commozione, all'epoca non l'aveva provata nessuno. Nemmeno sua madre. La signora Kent aveva affossato talmente bene quella notizia che a Renewal Hollow non ne parlò nessuno: non voleva dare scandalo, non voleva che la sua reputazione andasse dritta al cesso, non voleva che si parlasse male del suo ex bambino prodigio. Brandon si era domandato già svariate volte che cosa avrebbe pensato la gente di lui se si fosse venuto a sapere in giro... Ma poi si diceva che non gli importava, che in fin dei conti se le cose erano andate per quel verso un motivo c'era e, senza rimpianti, incrociava le braccia e continuava a far quello che meglio gli riusciva: mentire e fingere.
    Davanti a lui c'era la ragazza che tempo fa aveva “conosciuto” in sala d'attesa nello studio di sua madre. Era decisamente ancor più bella di quanto ricordasse e quel suo piccolo handicap gli permise di sbirciare, ancora meglio, il dono che madre natura le aveva fatto con tanto amore. Ovviamente lo fece con discrezione perché si trovavano in mezzo ad una strada – e non in una stupida stanzetta dove c'erano solo loro due – e non voleva che i passanti lo scambiassero per un maniaco sessuale fissato con i seni delle ragazze (cieche). Lei sapeva cosa stava facendo lui? Perdendo la vista aveva per caso acquisito la capacità di leggere nella mente? Oppure... Chissà cosa comportava ricevere perennemente quelle occhiatine di compassione – che si, non poteva vedere – ma che si potevano recepire dalla tonalità di voce?
    La ragazza iniziò a ridere, ma proprio di cuore. Inutile negare che Brandon ne fu leggermente infastidito perché quella continuava e continuava e sembrava non riuscire a calmarsi. Aveva forse detto qualcosa di sbagliato? O magari, oltre ad essere cieca, era anche pazza? Poverina, chissà cosa doveva aver passato per essere così... Sua madre gli aveva detto che le era stato fatto del male, tanto male – non aveva specificato cosa – e che il trauma era stato così forte da averle causato la perdita della vista. Poi aveva aggiunto, a bassa voce, che le persone ferite nel profondo cambiano e Brandon si era domandato se per caso stesse parlando anche per lui, per suo figlio.
    «Se questo è il tuo tentativo di attaccare bottone con me, ti prego ripensa alle tue strategie perché davvero, lo trovo stupidissimo.» Brandon fece per aprire bocca ma quella ripartì subito all'attacco, forse più inacidita di prima «Non so davvero cosa ti faccia pensare che io possa voler spendere del tempo a chiacchiera proprio con te, ma sappi che oggi non è proprio giornata. Ho altro a cui pensare e detto sinceramente non ho tempo da perdere con uno che probabilmente è attratto solamente dal mio seno...».
    In effetti non aveva proprio tutti i torti e sì, decisamente quella ragazza ci aveva “visto giusto”. Sorpreso dalla sua stessa ironia, Brandon fece una risatina breve e divertita, che venne però immediatamente smorzata dalla ragazza, di nuovo: «La cosa divertente è che non ho neanche bisogno di vederti per sapere che stai sfoderando tutto il tuo charme, solo per potermi portare a letto.».
    Era abbastanza intelligente, l'esatto prototipo di donna che a lui piaceva perché doveva impiegare maggiore energia per arrivare al suo scopo finale. Sapeva perfettamente che, da quel momento in poi, si sarebbe dovuto impegnare moltissimo e che, certamente, la ragazza sarebbe stata una brutta gatta da pelare.
    «Fammi un favore, considera di andare a spassartela con un'altra perché con me non hai alcuna speranza.» Boom, colpito ma non affondato. Quante volte si era sentito dire una cosa del genere da donne che poi, nei giorni seguenti, l'avevano disperatamente cercato per chiedere il bis? Lei non aveva ancora avuto la fortuna di vederlo, ops, sentirlo all'opera, perché stava dando fiato alla bocca? Testare prima di parlare, le avrebbe risposto. Ma quella, decisamente, era la tattica sbagliata, serviva qualcosa di più... Più... Improvvisato. E poi aveva bisogno di studiarla per bene prima di passare al vero e proprio attacco.
    Brandon alzò gli occhi al cielo e strinse le braccia al petto.
    «Okay, okay, frena, detto così sembra davvero che io sia una specie di pervertito» L'ammonì il ragazzo leggermente offeso. Amare quel tipo di piacere era ben diverso da essere uno di quegli orridi esseri... E lui, di certo, non credeva di esserlo.
    «Magari la mia intenzione può sembrare quella e... E ti chiedo scusa per quell'uscita di tantissimo tempo fa» Attivò la modalità di bravo ragazzo pentito per quel suo gesto tanto “cattivo” e proseguì: «Ma potresti prenderla sul ridere e pensare che io ti abbia fatto un complimento su qualcosa che, effettivamente, è proprio così...» Insomma, era inutile negarlo: quella tipa aveva delle belle tette e molto probabilmente lo riconosceva anche lei.
    Si grattò la nuca nervoso: «Ascolta, perché non mi dai una possibilità, una sola? Eh no, non mi approfitterò di te trascinandoti in camera da letto con la forza...» Ridacchiò debolmente «Che ne dici di un caffè al Neppheran? Poi sparirò dalla circolazione semmai dovessi continuare a trovarmi molesto, promesso. Forse sono partito semplicemente con il piede sbagliato.» Brandon amava davvero troppo le gare e, alcune volte, vincere comportava anche una cosa: barare.
    ▲ Brandon L. Kent ▼
    Aveva imparato a rispettare il baratro che lui aveva scavato tutto intorno a sé... Anni prima aveva provato a saltarlo quel baratro e ci era cascato dentro, ora si accontentava di sedersi sul ciglio con le gambe a penzoloni nel vuoto!

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    E va bene, forse Clémentine non aveva tutta questa grand'esperienza per quanto riguardava la vita amorosa come componente di una coppia, ma se c'era una cosa che nel corso degli anni aveva imparato a fare era il saper sempre riconoscere una persona sincera da una piena solo di bugie fin nella punta dei capelli. Inutile quindi dire in quale gruppo rientrasse il figlio dei Kent che, sebbene fossero a tutti gli effetti due bravi medici, forse avevano compiuto non pochi errori nel tirare su il proprio bambino.
    Spesso si domandava come fosse possibile che fanciulli un tempo tanto dolci, da grandi si tramutassero in vipere a due testa, capaci solo di trattare male le donne e di riempirle di menzogne, più o meno inefficaci a corprire le proprie malefatte. Davvero non capiva perché quelle persone sentissero il bisogno di mortificare le ragazze che gli capitavano a tiro, spingendola a credere in una storia d'amore inesistente quando, tutto ciò che loro volevano, era una nottata di sesso passata a spassarsela con la gnocca di turno.
    Intendiamoci, gran parte delle persone che si facevano infinocchiare da sistemi tanto idioti si meritava ogni lacrima versata in seguito, tuttavia Clém ancora non capiva perché c'erano uomini che si sentivano quasi in dovere di far diventare la vita di una donna un vero inferno.
    Lei aveva avuto la sua bella dose di rimpianti col genere maschile – tutti dovuti ad un solo individuo per di più – e tanto le era bastato a perdere per sempre fiducia nell'altro sesso. Di norma la sua indole ben poco gentile le permetteva di togliersi di dosso le attenzioni indesiderate di ogni ragazzo e, anche se era praticamente certa che con lui la sua freddezza servisse a poco, per un secondo buono quasi si era considerata al sicuro da ulteriori colpi di testa da parte di Brandon. Eppure, non appena ebbe fatto tanto di girarsi e muovere qualche passo, ecco che l'altro era già tornato alla carica pronto a sfoderare un altro asso nella manica pur comprendendo che tale sforzo sarebbe stato comunque inutile.
    «Okay, okay, frena, detto così sembra davvero che io sia una specie di pervertito.»
    Clémentine sospirò sonoramente, gli occhi puntati verso l'alto, Chopin al suo fianco spazientito quanto la padrona stessa.
    Perché doveva sempre finire così? Perché non capivano mai un "no" quando qualcuno glielo diceva? Rimorchiarla era così dannatamente importante da risultare come dei poveri imbecilli senza la capacità di comprendonio?!
    Detto sinceramente la Boudelaire non aveva dubbi sul fatto che lui fosse a tutti gli effetti sia un deficiente che un pervertito. Pur non avendo la capacità di vedere, aveva due orecchie ben funzionanti e non le erano di certo sfuggiti i commenti sottili che la madre di Brandon spesso e volentieri faceva circa il proprio figlio. Non che la donna si spingesse mai a calare nei particolari, certo che no, ma spesso notava nel suo tono di voce alquanto scherzoso una punta di rammarico se non addirittura di vergogna.
    Non era stupida, sapeva cosa stavano a significare determinati modi di parlare di una persona, e se anche il ragazzo non fosse stato uno gigolò come Clém sospettava, probabilmente aveva un altro problema di degna nota in cui lei non voleva in alcun modo imbattersi.
    «Magari la mia intenzione può sembrare quella e... E ti chiedo scusa per quell'uscita di tantissimo tempo fa.» lo sentì parlare, andando avanti nel suo blando tentativo di passare per contrito quando forse sotto sotto quasi andava fiero di aver esternato a gran voce il proprio apprezzamento per le doti che...madre natura le aveva offerto. «Ma potresti prenderla sul ridere e pensare che io ti abbia fatto un complimento su qualcosa che, effettivamente, è proprio così...»
    Volendo avrebbe potuto fulminarlo, tuttavia ormai ci aveva fatto il callo a quel genere di reazioni quando passava per strada. Immancabilmente c'era qualcuno che fischiava verso di lei, qualcuno che bisbigliava nella speranza di non essere sentito, qualcuno che pensando di passare inosservato le stava il più vicino possibile sul bus solo per riuscire a sbirciarle nella scollatura. Era abituata a quel genere di attenzioni anche se, ahimè, proprio non le comprendeva.
    Anche la madre di Brandon aveva il seno, no? Per caso sbavava dietro anche a lei quando gli passava davanti?
    «Si da il caso che tu non mi abbia per nulla lusingata l'altro giorno, quando te ne sei uscito con quella frase del tutto fuori luogo. Anzi, mi hai solamente messa in imbarazzo.» rispose Clémentine, risoluta come sempre. «Non so davvero da chi tu abbia preso, comunque, visto che tua madre e tuo padre sono sempre molto rispettosi ed educati... Immagino che tu sia fonte di contiuo orgoglio per loro.»
    Quella era una frecciatina immeritata, lo sapeva, ma quando partiva per la tangente la sua lingua affilata di rado riusciva a trovare un freno.
    Contando poi che quel ragazzo proprio non le andava a genio, difficilmente poteva smetterla di trattarlo male.
    «Ascolta, perché non mi dai una possibilità, una sola? Eh no, non mi approfitterò di te trascinandoti in camera da letto con la forza...»
    La mente di Clém registrò solo questa parte del discorso, ignorando bellamente tutto il resto che uscì di seguito dalle labbra del suo nuovo conoscente.
    Si strinse nelle spalle, confusa, arrabbiata perfino di fronte alla consapevolezza di non aver ancora dimenticato il dolore e la vergogna provati in passato con lo zio. Non biasimava Brandon per aver usato i termini sbagliati, biasimava se stessa per non avere il dono della stupidità o della memoria corta. Se solo fosse stato così, allora i ricordi non avrebbero continuato a tormentarla con cadenza regolare, costringendola a chiudersi in se stessa alla ricerca d'aria, alla ricerca di un appiglio quando tutto di lei si disintegrava e non trovava pace.
    Quello era il suo destino, davanti a sé aveva una strada costellata solamente di autocommiserazione, rabbia, senso di inadeguatezza, ed il trovarsi di continuo a condividere parte del percorso con persone superficiali come quel Kent di certo non la aiutavano a tornare a pensare bene degli altri.
    «Non ho alcuna intenzione di parlare ulteriormente con te.» affermò d'un tratto, ancora ignara della richiesta innocente che il ragazzo le aveva appena fatto. «Qualsiasi bel piano tu ti sia fatto in quella zucca vuota che ti ritrovi, cancellalo, perché piuttosto che passare altri dieci secondi con un insulso involucro privo d'attrattiva come te preferisco buttarmi direttamente sotto alla prima macchina che passa.»
    Le ricordava lo zio Jean?
    No, neanche lontanamente.
    O forse sì, ma solo in minima parte e neanche per colpa sua.
    Clémentine rivedeva Jean ovunque, in ogni uomo, in ogni persona che dimostrava troppo interesse nei suoi confronti. Non si sentiva al sicuro e non aveva la forza di affrontare i propri demoni.
    «...ne ho abbastanza degli uomini interessati solo a loro stessi.»
    Riprese a camminare, inoltrandosi nel parco cittadino.
    ▲ Clémentine E. Boudelaire ▼
    Ascoltando una musica calma e malinconica, quando, nell'isolamento di una malattia, il nostro passato si riduce a pura materia di contemplazione, siamo come trasportati in un senso dell'esistenza alto e rarefatto. E in esso è qualcosa di una giustizia austera e tuttavia compassionevole, che toglie ogni cruccio al ricordo delle nostre sconfitte, e amorosamente ci distacca dai nostri stessi desideri.

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    Quando Brandon offriva sé stesso ad una donna per spassarsela allegramente insieme a letto, da una parte era pienamente convinto di fare del bene come se, donare il suo corpo ad un'estranea per un po' di sesso, fosse un gesto altamente altruistico. Non ci vedeva neanche niente di male in “una-notte-e-via” e non riusciva ad avvicinarsi alla mentalità delle donne che volevano – anzi no, pretendevano – di instaurare un qualche tipo di relazione dopo una bottarella senza impegno. Proprio per questo motivo, senza dimenticare la delusione procuratagli da Melanie, Brandon aveva iniziato a trattare le ragazze come se fossero degli esseri a parte con cui poteva giocare, fare il gradasso della situazione ma a cui non poteva donare niente di più sé non il proprio corpo.
    C'era una categoria di donne, in particolar modo, che non sopportava: le “Richiamami”. Era difficile distinguere quelle con intenzioni maligne – richiamami perché ho scoperto di amarti dopo questa notte e non posso più fare a meno di te – e quelle con intenzioni altruistiche – richiamami perché questa notte di sesso selvaggio mi è piaciuta da impazzire e voglio assolutamente replicare – così Brandon ripiegava sul falso nome, il falso numero e... I falsi sentimenti.
    Sfortunatamente la ragazza che aveva di fronte non sembrava appartenere a nessuna categoria sopracitata. Quella tizia lì, con quelle due tette enormi e il cane antipatico, ne formavano una a parte difficile da gestire e a cui, la maggior parte delle volte, era perfino impossibile avvicinarcisi. La paziente di sua madre, per farla breve, apparteneva a quella categoria che non te la dava a prescindere, neanche ce l'avessero d'oro o cosa.
    A Brandon, che non piacevano le cose facili, spesso e volentieri capitava di imbattersi in ragazze del genere. A dirla tutta erano anche le sue preferite perché ti facevano sudare anche il più insignificante sì per un caffè, esattamente come la tipa di fronte a lui.
    «Si da il caso che tu non mi abbia per nulla lusingata l'altro giorno, quando te ne sei uscito con quella frase del tutto fuori luogo. Anzi, mi hai solamente messa in imbarazzo.»
    Beh, forse non aveva proprio tutti i torti anche se da una parte continuava a credere fermamente di aver fatto un'azione di puro altruismo. In fin dei conti la tipa era cieca e, a parte con il tatto, come diavolo faceva a sapere di avere delle tette così grandi, belle e sode? Brandon l'aveva soltanto informata aggiungendo anche un suo piccolo apprezzamento personale. Poi però aggiunse qualcosa, una frase, che tolse il sorriso dal volto del ragazzo. Era completamente fuori luogo, inopportuna e anche offensiva.
    «Non so davvero da chi tu abbia preso, comunque, visto che tua madre e tuo padre sono sempre molto rispettosi ed educati... Immagino che tu sia fonte di continuo orgoglio per loro.»
    Ed eccolo lì Brandon che, con una manciata di parole, veniva colpito ed affondato. Quella ragazza ci teneva tanto a fare da maestra bacchettona, a parlare di educazione, cose inopportune e fastidiose e poi... Poi era la prima che ci cadeva. Brandon non aveva nulla da imparare da una come lei. Esattamente come sua madre.
    Rivide, in quegli occhi spenti e il viso severo, l'esatta copia della donna che, strattonandolo per un braccio, gli aveva addossato colpe che non aveva.
    Brandon si allontanò di qualche passo, con la bocca spalancata e incapace di controbattere. Serrò le labbra e socchiuse gli occhi. La ragazza lo aveva ferito.
    Cosa ne sapeva lei del perché si comportava in quel modo? Che ne sapeva dei suoi genitori, del lavoro che Brandon svolgeva nello studio di sua madre, di cosa sentiva davvero?
    «Non ho alcuna intenzione di parlare ulteriormente con te.» Aggiunse ulteriormente. Sembrava una bomba ad orologeria esplosa.
    «Qualsiasi bel piano tu ti sia fatto in quella zucca vuota che ti ritrovi, cancellalo, perché piuttosto che passare altri dieci secondi con un insulso involucro privo d'attrattiva come te preferisco buttarmi direttamente sotto alla prima macchina che passa... Ne ho abbastanza degli uomini interessati solo a loro stessi.»
    Esagerata, di pessimo gusto, cocciuta, permalosa e anche antipatica. Poteva andare peggio di così? Una qualsiasi persona normale sarebbe rimasta al proprio posto per osservare la ragazza allontanarsi con il suo fido segugio ma Brandon, che non solo si sentiva ferito ma che aveva una missione da portare a termine, restò impalato al suo posto pochi secondi prima di fare un bel respiro e prendere una decisione.
    La ragazza si inoltrò nel parco. Bran la seguì con lo sguardo, poi decise di farlo con le gambe. Qualche secondo dopo le fu di nuovo addosso fregandosene altamente dello stupido cane che gli ringhiava contro.
    «Punto primo» Cominciò alzando l'indice e dimenticandosi completamente della cecità della ragazza «Vuoi fare la maestra ma parli a sproposito. Hai passato tutto il tempo cercando di farmi la morale per poi ricadere nel mio stesso errore...» Brandon parlava con un tono serio e risoluto, aveva perso tutto il divertimento che lo contraddistingueva sempre.
    «Sì è vero, magari ti curi dai miei genitori e mia madre ti è sembrava un amorevole donna... Ma forse non hai la minima idea di quanto le persone siano diverse da come appaiono a come sono realmente.» In quella frase ci si rispecchiava anche lui che cercava sempre di sembrare uno spirito divertente e simpatico quando in realtà dentro era tormentato da un dolore che nemmeno lui riusciva più a spiegarsi.
    «Punto secondo» Proseguì alzando il medio «Se fossi interessato solo a me avrei gettato la spugna al primo segnale ma, come vedi – Ridacchiò – Sono ancora qui.» Brandon sospirò e cercò di darsi una calmata, in fin dei conti la ragazza aveva espresso solo un suo personale pensiero esattamente come lui aveva fatto con le sue... Tette. Si passò una mano nei capelli e si accese l'ennesima sigaretta.
    «Ora, dato che siamo pari, permettimi almeno di presentarsi e di sapere il tuo nome. Non credo di chiedere tanto, vero?» Evitò di allungare la mano e disse, tutto d'un fiato: «Brandon Lionel Kent, ma se vuoi chiamami pure Bran.» Era inutile mentire con lei, tanto sarebbe giunta alla verità comunque magari chiedendo informazioni su di lui a sua madre.
    Fece un tiro di sigaretta e alzò le sopracciglia: «E tu sei...? E non mentire, mia madre ha un agenda per i suoi pazienti quindi potrei rintracciarti senza alcun problema ma, dato che sono un gentiluomo, non lo farò.»
    Beh, magari sapere il suo nome non era esattamente la sua priorità ma come magra consolazione poteva andare più che bene.
    Al resto, poi, ci avrebbe pensato in seguito.
    ▲ Brandon L. Kent ▼
    Aveva imparato a rispettare il baratro che lui aveva scavato tutto intorno a sé... Anni prima aveva provato a saltarlo quel baratro e ci era cascato dentro, ora si accontentava di sedersi sul ciglio con le gambe a penzoloni nel vuoto!

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    Se non fosse stata preda di almeno mille pensieri differenti – tutti in gran parte dettati dal proprio passato e quindi per nulla razionali – circa il genere maschile, allora probabilmente avrebbe trovato quasi interessante la compagnia di quel ragazzo, all'apparenza tanto spigliato, simpatico e gioviale. In fondo era come tante altre persone, le piaceva ridere con gli amici e far finta che al mondo non esistessero i problemi che invece continuavano ad affliggerla, ma proprio per via della sua totale incapacità a relazionarsi con gli uomini non riusciva mai ad andare oltre a quello che il cervello le suggeriva su di loro.
    Di certo non era stupida, conosceva l'animo umano come pochi altri, tuttavia non era raro che si ritrovasse vittima dei suoi stessi pregiudizi. In cuor suo, dava per scontato che le donne avessero sempre ragione mentre, i maschietti, avessero sempre immancabilmente torto. Così doveva essere, perché altrimenti il suo animo non avrebbe avuto pace e non si sarebbe mai trovata a proprio agio nella sua stessa pelle. Non poteva concepire un universo in cui gli uomini avevano il beneficio del dubbio, e non tanto perché li odiava tutti a prescindere, ma perché alla fine della fiera non aveva forse ragione nel credere che fossero sempre loro i fautori dei peggiori disastri che erano passati e che avrebbero continuato a passare alla storia?
    Pur volendo essere meschina, una donna non aveva la capacità di ferire fisicamente la propria controparte. Poteva lasciare cicatrici profonde dentro una persona, ma chi diceva che ne feriva più la lingua che la spada probabilmente non aveva mai sopportato un abuso di alcun genere.
    Con questo non voleva dire che non esistessero al mondo donne capaci di rapire e violentare qualcuno, ma quante erano queste a confronto degli uomini? E quante, pur non essendo questa una scusa per le loro deprorevoli azioni, erano state vittime a loro volta in passato di qualsiasi genere di abuso?
    Clémentine non voleva essere sgarbata, odiava quella parte del suo carattere che la spingeva immancabilmente a comportarsi come una bambina indisciplinata, ma non poteva fare altrimenti. Non riusciva a perdonare nessun ragazzo quando le si presentava di fronte con quell'ovvia intenzione, così chiara anche per lei che non poteva vederla a rispecchiarsi nei loro occhi: lui, il figlio dei medici che l'avevano in cura da anni, era solo uno dei tanti che ancora si ostinava a dare per scontato che bastasse un cipiglio sicuro a far sì che una fanciulla cadesse ai loro piedi. Scommetteva che non si era soffermato neanche un secondo a considerare il colore dei suoi capelli o quello dei suoi occhi. Era assolutamente certa che tutto ciò che si era fermato a notare era la misura del suo seno e l'avvenenza dei suoi tratti.
    Nulla di più.
    Non c'era mai niente di più di questo.
    Quando si era riavviata per la propria strada, lo aveva fatto con la consapevolezza di essere stata fin troppo dura con lui. Si era lasciata sfuggire commenti ben poco gentili, chiaramente mirati a farlo sentire una merda anche solo per aver provato a rivolgerle la parola. Come già detto, non riusciva a concepire come dentro di lei si celasse ancora tutta quella rabbia eppure, al tempo stesso, non riusciva neanche a fare a meno di mostrarla al prossimo.
    Se ne stava sempre lì, in balia della propria ira, chiedendosi in profondità quanto potesse risultare apatica quando qualunque, per un motivo o per l'altro, le si avvicinava.
    Aveva bisogno di amici, Clém, ma di quel passo non li avrebbe mai trovati. Sua madre lo diceva spesso, sarebbe rimasta sola per sempre se non si fosse decisa a mettere una volta per tutte da una parte il proprio passato, concedendosi un minimo di gioia nel presente.
    Forse, il primo passo per dimenticare, era proprio dare una chance a qualcuno. Non importava chi, bastava almeno provarci.
    «Punto primo»
    Clémentine alzò gli occhi al cielo, fermandosi in mezzo alla viuzza del parco con Chopin che, al guinzaglio, stava cominciando seriamente a spazientirsi. Lo sentì ringhiare piuttosto animatamente e, di conseguenza, si chinò sulle ginocchia per confortarlo.
    Per il momento non stava succedendo nulla di male, era bene che il suo cucciolotto lo capisse. Se avesse morso quel poveretto, poi chi li avrebbe sentiti i suoi genitori?! Come minimo avrebbero pensato che glielo aveva aizzato contro apposta.
    «Vuoi fare la maestra ma parli a sproposito. Hai passato tutto il tempo cercando di farmi la morale per poi ricadere nel mio stesso errore...» disse il ragazzo, convincendola una volta per tutte di aver effettivamente esagerato. Avrebbe volentieri chiesto scusa, se non fosse stato che il suo interlocutore al momento era fin troppo preso dal proprio fervore. «Sì è vero, magari ti curi dai miei genitori e mia madre ti è sembrata un'amorevole donna... Ma forse non hai la minima idea di quanto le persone siano diverse da come appaiono a come sono realmente.»
    Oh, quanto si sbagliava...
    Se c'era qualcuno, in quella cittadina, che poteva comprendere cosa intendeva dire quella era proprio lei, Clémentine Boudelaire.
    Decise comunque di rimanere zitta, volendo vedere fino a che punto si sarebbe spinto quell'altro in quel bizzarro tentativo di farle la ramanzina. Fino ad allora nessuno aveva mai osato controbattere, tutti si erano sempre limitati a lasciare l'ascia di guerra per timore di passare come dei mostri nella loro volontà di iniziare una lite con una ragazza cieca.
    Quasi quasi era divertente bisticciare con qualcuno che non faceva parte della sua famiglia. Per lo meno la stava trattando come una persona normale.
    «Punto secondo, Se fossi interessato solo a me avrei gettato la spugna al primo segnale ma, come vedi, sono ancora qui.»
    Si ritrovò a sorridere, intrigata dal modo di fare di quel non poi così tanto sconosciuto.
    Gli lanciò uno sguardo vagamente divertito, rimettendosi in piedi quando comprese che Chopin era a posto e che, ora, spettava a lei difendersi da sola.
    «Ora, dato che siamo pari, permettimi almeno di presentarmi e di sapere il tuo nome. Non credo di chiedere tanto, vero?»
    «Dopo tutte le belle cose che mi hai detto, non serve che ti presenti, oh mia cara Diva commentò lì per lì, stringendosi nelle spalle. A quanto aveva intuito, nemmeno lui era solito farsi trattare a quella maniera... Non da un'ipotetica preda, comunque, questo era poco ma sicuro. «Se ci tieni tanto però fai pure...»
    «Brandon Lionel Kent, ma se vuoi chiamami pure Bran.»
    Non gli disse che sapeva già come si chiamava, poiché sua madre non aveva esitato a nominarglielo durante alcuni dei loro incontri. Diciamo che non sentì la necessità di esplicitarlo, un pò come se sotto sotto ci tenesse a conoscere qualcuno nella maniera appropriata, cosa che non le capitava da fin troppo tempo ormai.
    «E tu sei...? E non mentire, mia madre ha un agenda per i suoi pazienti quindi potrei rintracciarti senza alcun problema ma, dato che sono un gentiluomo, non lo farò.»
    Se lui era un gentiluomo, allora lei era la gemella perduta di Superman, scesa appositamente dal pianeta Krypton per studiare le abitudini degli esseri umani.
    «...mi chiamo Clémentine. Clémentine Eve Boudelaire.» disse d'un tratto, ricordandosi subito della pessima abutidine che aveva la gente di ricordarle quella stupida canzoncina di Braccobaldo. «Non osare nemmeno intonarla...»
    Lo ammonì quasi all'istante, confidando nel fatto che avrebbe facilmente compreso a che cosa si riferisse. Se fosse stato altrimenti, allora le sarebbe toccato per davvero dare per scontato che fosse solo un povero mentecatto, senza nemmeno l'ombra di un cervello.
    Ad ogni modo, abbassando un secondo lo sguardo a terra, Clém strinse velocemente le mani al guinzaglio del suo cane e, dopo aver emesso un sospirò, cercò di proferire quelle paroline che tanto le veniva difficile lasciar uscire fuori.
    «Mi... Mi dispiace per prima. Per quello che ho detto.» borbottò «...è che non sopporto le persone pressanti come te. Specie se sono dei maschi.»
    ▲ Clémentine E. Boudelaire ▼
    Ascoltando una musica calma e malinconica, quando, nell'isolamento di una malattia, il nostro passato si riduce a pura materia di contemplazione, siamo come trasportati in un senso dell'esistenza alto e rarefatto. E in esso è qualcosa di una giustizia austera e tuttavia compassionevole, che toglie ogni cruccio al ricordo delle nostre sconfitte, e amorosamente ci distacca dai nostri stessi desideri.

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